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mercoledì 23 dicembre 2015

IL FASCINO DELLA RIMA


Di Aldo Magnoni

Le valli montane del Dragone, Dolo e Secchia, possono considerarsi l’epicentro di una lontanissima cultura popolare che si tramandava attraverso strofe, versi e rime.


Quando, a cavallo della metà del 1300, in una delle sua "Lettere Familiari" il Petrarca predisse che nell’alto modenese e reggiano, un giorno, persino i buoi avrebbero finito per muggire in versi, il nostro territorio, al dire del prof. Sesto Fontana di Cargedolo, era già allora innegabilmente attratto dal fascino della strofa, del verso e della rima. E una testimonianza lasciata da Petrarca, non è cosa da poco.

Ma un’altra testimonianza importante contemporanea al Petrarca e sfuggita al Fontana negli anni ’20, rafforza la tesi che le valli montane del Dragone, Dolo e Secchia, possano considerarsi l’epicentro di una lontanissima cultura popolare che si tramandava attraverso strofe, versi e rime: il poema composto nel 1358 da Niccolò da Casola, "La Guerra d’ Attila" o semplicemente "l’Attila", un poema cavalleresco, scritto in sedici canti, di oltre trentasettemila versi alessandrini con mescolanza di endecasillabi e lunghe tirate monorimatiche. E, guarda caso, l’unico esemplare manoscritto conservato in due grossi volumi cartacei, è custodito nella Biblioteca Estense di Modena quasi a voler dissipare ogni dubbio che la Casola in cui nacque Niccolò, altro non sia che quella nostra modenese o quella reggiana.

Già il prof. Pio Rajna, tra i più illustri filologi del tempo, insieme a Giosuè Carducci ed Alessandro d’Ancona, nel 1908, indagando sul luogo di nascita di Niccolò si chiedeva "Ma da qual Casola aveva mai la schiatta preso il volo?" Altra ipotesi non poteva trarne che quella Casola fosse modenese o reggiana, più improbabilmente parmense.

Pensiamo poi che la prima testimonianza appenninica del "Maggio", che fa di strofe versi e rime la propria linfa vitale, l’abbiamo un una scrittura del 7 luglio 1792 fatta da don Matteo Corti e conservata in origine nell’ archivio parrocchiale di Casola, (salvo poi quel documento essere spostato "misteriosamente" nell’archivio parrocchiale di Vitriola per ragioni poco comprensibili dal punto di vista storico).

Ma non tedierò oltre il paziente lettore e, dal XIV secolo salterò direttamente alla prima metà del XX, laddove i non pochi compositori di "Maggio" presenti nelle valli di Dolo, Dragone e Secchia furono studiati in occasione della tesi di laurea del futuro prof. Fontana, successivamente da Lui ripresi nel libro "Il Maggio".

Erano quasi tutti contadini, di modestissima cultura, ma lettori appassionati, e non di molti libri, bensì di pochi libri, quando addirittura di un solo libro, ma questo uno o questi pochi libri, erano letti intensamente, meditati e rimeditati, non scorsi superficialmente e distrattamente e appena sfiorati e delibati, ma scavati e frugati in profondità, comparati e confrontati, pensati e ripensati, sentiti e risentiti e soprattutto gustati e rivissuti nei silenzi solenni e suggestivi dei verdi pascoli e nelle lunghe veglie invernali.

A Boccassuolo, ad esempio, scrivevano testi: Puro Stefani di Casa Marchetti che nel 1928 a 14 anni scrisse il Maggio "Cabiria" originariamente di 1000 strofe. Scrisse altresì i Maggi "I Sette contro Tebe" tratto da Eschilio, "L’Inquisizione di Spagna", "Teseo e Arianna". Fu, tuttavia, il meno apprezzato dal Fontana che lo definì incontentabile, con grande preoccupazione di riuscire originale ostentando non curanza per gli altri compositori.

Domenico Casolari, detto "Mèngola" nato forse a San Dalmazzo (San Dalmass come si dice in dialetto) e vissuto tra il 1875 ed il 1936 scrisse, tra gli altri, il Maggio "Fioravante e Dusolina", "I Figli di Oliviero"(Grifone il Bianco ed Aquilante in Nero) di 324 quartine di ottonari più quattro quartine finali settenari. Grande facilità di rima e scioltezza di verso. Buona proprietà e, alle volte, perfino eleganza. E’ ricordato dagli anziani come facile improvvisatore.

Per un Maggio, appena composto a tempo di primato, domandava alla Compagnia, che lo voleva rappresentare, per esempio cinque lire! Trovavano da ridire e non gliele davano? Ebbene egli, seduta stante, con la massima indifferenza, sopprimeva… la sua creatura, stracciandola, o dandola alle fiamme.

Si ricorda la discussa quartina del Maggio "I Sette contro Tebe" quando Tideo rivolto a Menelippo: "Non fidarti della donna/Ella è il fiore del mistero/ Il suo amor non è sincero/ Vela il mal sotto la gonna". Questo verso valse all’autore, pare, la distruzione di una ottantina di strofe, ad opera della moglie e del parroco.

Ma il migliore, sempre stando al Fontana, fu Luigi Pighetti de "La Villa" definito nel primo dopoguerra il più fertile ed il più versatile compositore di Maggi. Scrisse, tra gli altri Maggi, "Almerinda di Milano" di 396 strofe, e "Cleodolinda la Guerriera" di 354 strofe tratto da un romanzo dello stesso titolo. "Costantino Imperatore", "Bovo d’Antona" dai Reali di Francia scritta in lapis di 460 strofe, "I Pirati delle Praterie" e "Mainetto" di 491 strofe, "Ruggero di Risa" di 357 strofe, "La venuta di Annibale in Italia" di 422 strofe, "Fioravante" di 257 strofe, "Marcantonio e Cleopatra" di 430 strofe, finito di comporre il 24 febbraio 1925.

Cosa è rimasto di questi e tanti altri lavori manoscritti?

Poco, purtroppo.

E parte di quel poco fortunatamente fu salvato da Romolo Fioroni, grande studioso del "Maggio" scomparso alcuni anni fa. Dalla testimonianza orale ho tuttavia recuperato alcune curiose quartine dei frequenti sfottò, tra gli abitanti di Boccassuolo:


Là davanti allo steccato

Vedo Mengo con la forca

Barba lunga e faccia sporca

Par del diavol l’aiutante.


Cotto il forno di sicuro

Non temiamo alcun vicino

Sia a Gigòn che al Fiumalbino

Gliela abbiam messa nel culo.
(Gigione da Boccassuolo voleva convincere Mengo della Lissandra a chiamare un esperto di Fiumalbo per preparare e cuocere la calce in un fornello. Mengo e Puro Stefani, che compose nell’occasione le due quartine, rifiutarono sdegnati e provvidero poi egregiamente nella cottura).



Mentre feci una pisciata

Giù dal buco del camino

Ritornando al tavolino

La bottiglia era vuotata.


Bestemmiando Dio e Madonna

La bottiglia non la pago

Benché siam tutti di Lago

Non temete alcun vergogna?
(di Puro Stefani. Quartine composte in una taverna di Lago, allorquando allontanandosi dal tavolo dopo aver ordinato una bottiglia di vino, al ritorno la ritrovò vuota).



C’è un ometto detto Gino

Che agli amanti mette male

Lodovico suo rivale

Lo chiamava Tredicino.

Quando vien dalla Matrona

Scappan tutte le galline

Si nascondon le gattine

L’infiammato non perdona.
(Di Gino Pighetti della Matrona di Boccasuolo, chiamato "Tredicina" dal rivale in amore Vico da Casa Marchetti)



Pasqualone su la Volpe

Che assisteva alla gran guerra

Vide Pietro andare a terra

Con un colpo di ramone.
(Quartina sui litigi dei tre fratelli Pighetti della Matrona sia tra di loro sia tra glia abitanti di Casa Marchetti. Volpe è un toponimo di una altura sopra Boccasuolo, mentre il ramone è un componente dello "strascino" attrezzo agricolo a traino animale senza ruote)



Per tre giorni fece guerra

Sempre con la falce in mano

Ma il sudor grondava invano

Trenta chil di fieno a terra.
(Quartina sull’acquisto conteso di una falce e successivo scarso risultato di fieno raccolto).


Spostandosi oltre Dragone, una vecchia strofa sulla torre della Verna ed il richiamo ad alcuni abitanti di quella borgata:


"Della Verna Capitale

per gran legge è la gran torre

e il comando lo vò porre

a Mingon di Cardinale.


O Niceto, se tu fossi il mio vascello

quella torre vorrei alzare

con metallo risplendente

mille volte più del sole."








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