Ancora una volta un lavoro di ricerca
mosso dall’interesse per la storia e la cultura del nostro Appennino. La tesi
di Erika Baschieri, intitolata “La Palaganeide: tra letteratura e cultura popolare”, indaga
e analizza quel poemetto “dedicato” al nostro «bel paese» e ai suoi «cervelli
fini», scritto da Gaetano Nizzi (1873-1917) tra la fine del ‘800 ed i primi
‘900. Non solo ne mostra la struttura e i contenuti, ma tenta anche un
confronto tematico con la celebre opera tassoniana, La Secchia rapita; utilizza infine il lascito letterario di Nizzi
per una ricostruzione storico-culturale del contesto in cui il testo si
sviluppa.
L’allora giovane
parroco di Rotari - piccola frazione nei pressi di Fiumalbo - descrive le
vicende dei palaganesi, attingendo alle storie di paese nonché alla propria
fantasia. In sei canti, che compaiono periodicamente sul giornale Pierpaolo, narra dell’ingenuità di quei
montanari-eroi che cercano a Livorno l’intelletto e decidono di fabbricarsi la grande
luna che desiderano. Stravolgendo il genere epico e cavalleresco, Tanino mostra
una combriccola di “astuti” paesani che accompagnano il lettore in una serie di
vicissitudini e sventure; caricature o maschere di “tipici” personaggi di paese,
che vengono dipinti con goliardia benevola. La solennità della narrazione epica
viene abbassata attraverso particolari grotteschi o fuori luogo. Ma non c’è
alcun disprezzo nell’utilizzo di elementi volutamente esagerati e carnevaleschi,
piuttosto la comicità si trasforma in una modalità di riflessione su tematiche di
ampia profondità, come la vita, la condizione umana e la morte. Viene dato ampio
spazio ad elementi concreti e materiali - ad esempio riferimenti a particolari
corporei e alle sue funzioni più sconvenienti - che abbassano il tono del
racconto, ma che solo apparentemente mancano di rispetto alla dimensione più
alta dello spirito umano. Facendo riferimento alle opere e alla poetica di
Rabelais, Erika nota infatti come l’utilizzo di immagini materiali ineriscano
ad un determinato stile letterario; questo tipo di linguaggio permette di conquistare
una più ampia confidenza con la natura umana e con il mondo, partendo dal basso.
In linea con tale specifica modalità di indagare l’uomo e il reale, il focus del lavoro si sposta su uno degli
episodi più conosciuti del poemetto, descritto nel primo canto: la perdita
della testa del saggio Barba Gianni che, alla ricerca del giudizio con alcuni
compari, si cala in pendio scosceso e viene decapitato da un lupo. Anche in questo
caso il particolare macabro è un modo di esorcizzare, attraverso il riso, la paura
suscitata dalla difficoltà di comprendere l’esistenza e la morte.
Nizzi impiega poi molti elementi
significativi, ampliamente utilizzati nella storia della letteratura: l’asino,
simbolo antico di umiltà e docilità, ma anche di stupidità e mancanza di
intelletto, presente già nella Bibbia e poi ripreso da Apuleio, Collodi e dai
fratelli Grimm; la luna, tradizionalmente simbolo di follia, del cambiamento,
ma anche della femminilità e infine il tema del viaggio e della ricerca, “filo
rosso” che lega i diversi episodi tra di loro.
Il lavoro di Erika
prosegue con un approfondimento storico-culturale del contesto in cui l’opera
fu scritta e si conclude con un’indagine su ciò che rimane di questi racconti,
non solo nella bibliografia esistente, ma anche nella vita del nostro paese.
Dalla tradizionale Festa dei Matti - che si riferisce goliardicamente all’immagine
che Tanino creò degli eroici palaganesi - al periodo di scherzi ideati dalla
combriccola della S.E.G.A. che si sono susseguiti negli anni novanta, dando
così testimonianza dell’astuzia leggendaria ereditata, in qualche modo, da
Barba Gianni, Marietta, Bortolino e dai suoi.
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