Come spesso accadeva, mi ritrovavo quasi frastornato, in
silenzio, ad osservare il tramonto,
seduto su quella vecchia panchina arrugginita. Tra sogni e balzi nella realtà
non comprendevo se il sole fosse alla sua nascita o alla sua morte. Non
comprendevo se io ero alla mia nascita o alla mia morte.
Dondolavo lentamente i piedi nel vuoto. Se qualcuno
avesse potuto essere lì con me in quel momento avrebbe certamente detto che ero
tranquillo ed esprimo serenità. Ne sono convinto. Chi non associa il cadenzato
dondolare dei piedi nel vuoto a una sensazione di gioia?
Abbozzavo un sorriso ironico, forse un po’ falso;
stringevo il bordo della panchina, mentre mi divertivo a stendere i gomiti di
entrambe le braccia facendo leva sui palmi delle mani, per vedere quanto
potessi estenderli. Mi sentivo soddisfatto. Sì.
Se qualcuno avesse potuto essere lì, avrebbe certamente detto
che ero soddisfatto. La mia espressione era inequivocabile.
Sentii proprio allora uno sfrido accarezzarmi l’orecchio
destro. Rimasi fermo. Avevo paura a girarmi. Magari era solo stata uno scherzo
del vento.
Dopo pochi attimi successe nuovamente, ma questa volta mi
si accapponò la pelle.
Pareva quasi che qualcuno avesse graffiato con le unghie
su di uno specchio proprio di fianco al mio orecchio.
Era certamente qualcuno che lottava. C’era una guerra in
atto. Lo specchio era andato in mille frantumi. Io sentivo la pelle d’oca. In sottofondo poi pareva quasi emergere un
lamento. Di quelli da adulto. Di quelli di cui se ne sentono pochi. Era un lamento
acido, a voce bassa, un po’ rosso a dir la verità, sebbene se avessi dovuto
descriverlo a terzi l’avrei certamente descritto come grigio.
Qualche istante dopo, il silenzio. Non una mosca volare.
L’unico rumore che in realtà mi creava piacere era l’incalzante muoversi dei
miei piedi.
Passò un istante in cui mi sentii al sicuro. Esatto: un
istante. L’istante dopo sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla destra.
Non mi voltai. Ma la pressione non pareva essere tanto energica, non c’era di
che avere paura.
Al mio orecchio fu sussurrato qualcosa. Era una voce
animalesca, quasi roca. Non badai molto alle parole, ricordo solo che un attimo
dopo ero al suolo. Scaraventato.
Sapevo che non avrei dovuto permettergli di lasciarmi la
mano sulla spalla.
Tentai di rialzarmi, ma mi ri-colpì all’addome con un
calcio prima, e con una ginocchiata poi. Non ero in grado di parlare, né tanto
meno di rialzarmi.
Il colpo successivo mi fu sferrato al volto.
Ero inerme.
Mi risvegliai con una mano sulla spalla. Era la stessa
mano che si era appoggiata a me qualche tempo prima. Feci per allontanarla
immediatamente, ma ancor prima di poterla sfiorare fui colpito al volto dalla
mano stessa.
Era la fine. Non riuscivo più a reagire. Restavo a terra
sanguinante.
Un uomo senza sangue muore , no?
-No.-
Un uomo che crea castelli illusori composti da mura di
pensieri e da portoni senza chiave muore.
Un uomo muore quando per paura di perdere tutto ciò che
ha avuto fino a quel momento, decide di non saltare, decide di guardare il cielo
a braccia conserte, decide che il buio della propria ombra sia il posto più
sicuro in cui stare, decide di fermarsi. Un uomo muore quando decide che il
meglio ci sia già stato, e quando a decidere per lui sono gli altri.
Un uomo non muore quando viene colpito al volto. Muore
quando viene colpito alle gambe. Muore quando viene colpito alle ginocchia.
Muore quando anziché alzarsi decide di stare seduto.
Muore quando arriva a non desiderare. Muore quando è
ossessionato dal giudizio degli altri, ma non di quello che lui ha di se
stesso. Muore quando tra cento volti, sceglie di guardarne uno solo. Muore
quando sceglie di non scegliere. Muore quando ha gli occhi sbarrati e le labbra
asciutte. Muore quando preferisce l’artificio alla natura. Muore quando preferisce
la certezza all’incertezza.
Io continuavo a dondolare i mei piedi sulla panchina con
aria soddisfatta.
L’uomo non è immortale, ma è in grado di sopravvivere
alla morte.
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